lunedì 12 giugno 2017

L'ANIMA BELLA 4







Questo post è l'ultimo atto di questi tre che lo precedono:
Io ti consiglio di leggerli prima di affrontarlo, ma se non lo desideri cercherò di comprenderti ... in fondo la tua vita è affar tuo.
BUONA LETTURA.







Tutte queste “imprese” di Mitja avvenivano pubblicamente, alla luce del sole, egli non si nascondeva affatto e ciascuna di esse giungeva impietosamente alle orecchie di Katerina Ivanovna, che si trova improvvisamente ad essere la fidanzata, con tanto di cerimonia religiosa ortodossa, scambio di anelli in presenza di testimoni e la benedizione del pope e della generalessa, di un beone, un poco di buono frequentatore di taverne, uno senz’arte né parte, un fannullone e un traditore.
Uno che vive della carità altrui senza guadagnare nulla, che ha scialacquato tutto ciò che aveva, un violento che non si sa controllare e che ha minacciato di uccidere suo padre, che si è innamorato di una donnaccia in tutto inferiore alla sua fidanzata, che è geloso fino alla follia di questa donna ed è geloso di suo padre, che non ha più neanche l’onore e la dignità di vergognarsi di tutto ciò e che non prova più neanche a nascondere quanto è diventato abietto, anzi ne ha fatto stendardo.
In tutta questa folle corsa verso il baratro, che tutti osservano stupefatti e nessuno sembra saper frenare, simbolizzata dalla trojka galoppante citata nell’arringa del procuratore Ippolit Kirillov durante il processo, l’evento che rende irreversibile, inevitabile e inesorabile il precipizio nella catastrofe di tutta la famiglia e di coloro che in qualche modo ne sono coinvolti affettivamente, è la consegna di tremila rubli di Katerina Ivanovna a Dmitij Karamazov.
Ella dice che non si dava pace di sapere il suo fidanzato privo di mezzi che viveva di espedienti, allora escogitò uno stratagemma per non ferire il suo orgoglio e per non sembrare che gli stesse facendo l’elemosina, lo chiamò in disparte sola con lui e gli consegnò la somma suddetta affinché la inviasse a Mosca alla sorella, ma senza fretta, bastava che giungesse da li ad un mese e che non la inviasse da li, ma dal paese vicino; di quell’invio Katerina non chiese mai a Mitjia di mostrarle una ricevuta, né domandò se avesse inviato il denaro.
In una situazione così esplosiva in cui il suo fidanzato era poco lucido, pronto a qualsiasi cosa, pure ad uccidere il proprio padre, e preoccupato fino alla follia che la donna che amava potesse tradirlo con suo padre per denaro, avere in mano tremila rubli (anche la cifra è simbolica e beffarda, è la stessa cifra che Fëdor Pavlovič ha messo in palio per godere delle grazie di Grušen’ka) poteva essere un’arma micidiale, e infatti così fu.









Nel tentativo di conquistare definitivamente la sua bella Dmitrij la invita per qualche giorno in un albergo a Mokroe, una località di villeggiatura poco distante dal paese in cui abitavano, ma non è un normale invito, egli fa le cose in grande, alla russa, anzi alla Karamazov, acquista per l’occasione una quantità spropositata di casse di champagne, del buon caviale, salmone ed altre squisitezze dolci e salate, carica fino a farla scoppiare una trojka e corre a perdifiato attraverso la steppa fino a quel luogo che per lui è il paradiso, qui fra spese, mance e regali, feste, musica e balli di gitani, si vanta in pochi giorni di aver dilapidato l’intera somma, senza fra l’altro aver ottenuto da Grušen’ka nient’altro che il permesso di baciare il suo piedino.
Quel denaro fu in realtà una sfida e una vendetta da parte di Katerina e Dmitrij dal canto suo capì immediatamente che era in odio verso di lui e non per amore che lei glielo stava dando, era per perderlo, era perché lui accelerasse la sua sventura; è la stessa Katja a dirlo pubblicamente nel corso del suo secondo interrogatorio nel processo, quando ormai il suo odio per lui è allo scoperto e vuole solo distruggerlo.
Katerina era consapevole che Dmitrij amava un’altra, che la stava tradendo con quella “canaglia”, e che questa donna sensibile al denaro poteva essere conquistata e mantenuta solo da uomini facoltosi, allora escogita l’espediente dell’invio a Mosca, guarda caso della stessa cifra stanziata dal vecchio Karamazov; stava alludendo, simbolizzando, si prendeva gioco di lui, voleva umiliarlo, voleva vedere se lui sarebbe stato tanto privo d’onore da tentare di conquistare quella donna proprio con i soldi che gli stava affidando lei, la sua fidanzata.
Stava ripetendo, invertendo il ruolo dei protagonisti, la stessa scena di quella sera in cui fu lui ad offrire a lei il proprio denaro, e fu nei suoi occhi che scintillò il disprezzo perché lei lo prendeva, umiliandosi, vendendosi, offrendosi a lui e probabilmente a chiunque glielo avesse offerto; per tutto quel tempo Katja era inorridita al ricordo di quello sguardo carico di disprezzo, da quello sguardo nasceva il suo odio profondo per lui, quegli occhi lampeggianti avevano risvegliato il suo orgoglio il suo amor proprio, e lei si era legata a lui perché quegli occhi si mutassero in amore o per sprofondare con lui in un mare di odio reciproco.








“Lo volevo salvare perché mi aveva odiata e disprezzata così tanto …Oh , lui mi disprezzava profondamente, mi ha sempre disprezzata e sapete, sapete, mi ha disprezzata dal momento stesso in cui mi sono inginocchiata davanti a lui per quei soldi, io me ne accorsi …Oh, lui non ha capito, non ha capito niente del motivo per il quale mi ero precipitata da lui, lui è capace di sospettare soltanto bassezze! Egli giudicava la gente secondo il proprio metro, pensava che fossero tutti come lui…” (p. 944), proruppe Katerina come se fosse impazzita, durante il processo.
Poco prima aveva fornito una testimonianza completamente diversa, in cui tutti quelli che l’avevano ascoltata si erano orientati verso l’innocenza di Dmitrij o almeno ad una riabilitazione della sua figura e ad accarezzare l’ombra del dubbio nei suoi confronti, nonostante gli indizi contro di lui fossero schiaccianti, e per aiutarlo non aveva esitato a raccontare tutto di quella sera, macchiando pubblicamente la sua reputazione, pur di ribadire che uomo di cuore generoso fosse Dmitrij Karamazov.
Però, non esita neanche a cambiare successivamente la sua versione, condannandolo definitivamente e fornendo quella che Ivan aveva definito la “prova matematica” della sua colpevolezza, in cui Mitja in stato di ebbrezza, sul retro del conto di una taverna, aveva scritto a Katja la sua intenzione di uccidere suo padre, nel modo in cui poi era stato veramente ucciso, e di appropriarsi dei soldi che il vecchio teneva nascosti per Grušen’ka … la lettera ella non l’aveva distrutta, anzi, quel giorno l’aveva portata con sé, forse indecisa fino alla fine se salvarlo o perderlo e alla fine farà entrambe le cose.
Non solo i Karamazov vivono fra due abissi, lacerati fra due opposti, chi molto più titanicamente è abbarbicata fra due abissi è proprio Katerina Ivanovna, lacerata fin da subito dagli opposti amori per due uomini che non potrebbero essere fra di loro più diversi nonostante siano fratelli; fino alla fine Katja non saprà chi dei due ama davvero, fino alla fine in carcere quando andrà a trovare Mitja lo abbraccerà, lo bacerà e nonostante gli dica perentoriamente: “L’amore è finito, Mitja!”, subito dopo aggiungerà: “Tu ami un’altra donna e io amo un altro uomo, eppure ti amerò in eterno, e anche tu amerai me, lo sapevi questo?” (p. 1050).










Alla fine tutti questi eventi, tutto quest’amore tramutato in odio, come il miracolo à rebours delle nozze di Cana (citate nel romanzo), non più l’acqua che si fa vino, ma il vino che diventa aceto, tutta questa enorme ambivalenza, il vivere costantemente a cavallo fra due abissi, travolgerà irrimediabilmente tutti i protagonisti, che cadranno uno ad uno come marionette senza fili.
Se vogliamo, la trama de I fratelli Karamazov è estremamente banale, assomiglia alla fiaba de I tre porcellini, simbolizzati dai tre fratelli Karamazov, ciascuno di essi costruisce la sua casa con i materiali che riterrà più opportuni, Dmitrij la costruirà fondandola sull’appagamento immediato dei suoi desideri e sarà punito dalla giustizia e mandato in Siberia, Ivan la costruisce sulla nuova filosofia atea in cui se elimini l’idea di Dio elimini anche la morale fra gli uomini e allora “tutto è lecito”, e pagherà il naufragio di questa dottrina con la follia e con lo sprofondare nel senso di colpa, Alekseij costruirà la sua casa sulla solida rocca della fede, ed è l’unico ad uscire indenne da questa tragedia, nonostante sia addolorato per la sorte dei fratelli e per la triste morte del padre.
In ciascuno dei personaggi del romanzo Dostoevskij mette qualcosa di suo, e più importante è la figura che rappresenta, più profonda è l’identificazione fra lo scrittore e l’attore che mette in scena nel suo scritto; c’è un po’ di Dmitrij, di Ivan, di Fëdor Pavlovič e persino di Smerdjakov in lui (con ogni probabilità un quarto fratellastro, non riconosciuto dal vecchio Karamazov, che lo tiene in casa come cuoco, lacchè, confidente e uomo di fiducia, che soffre di crisi di grande male epilettico, esattamente come lo scrittore, e che sarà l’esecutore materiale dell’assassinio del padre, del patricidio appunto).
Un evento, il patricidio, che non doveva essere del tutto estraneo al nostro Dostoevskij, almeno nelle intenzioni, visto che il proprio padre era un tiranno con tutti, anche con i figli, e l’intenzione di ribellarsi contro di lui e forse anche quella di ucciderlo deve essersi affacciata più volte nella loro mente, tanto è vero che qualche biografo l’ha pure sospettato, perché le circostanze della morte del padre di Dostoevskij non furono mai del tutto chiare: ucciso dai suoi stessi contadini/servi della gleba, che angariava e sfruttava e su cui sfogava la propria rabbia e le proprie frustrazioni, ma i suoi figli dov’erano, cosa stavano facendo in quel momento, ed è possibile descrivere così bene le circostanze di un delitto così atroce in tutte le sue sfumature se non l’hai vissuto? 









Dostoevskij descrive con perizia il tormento del giocatore, perché a sua volta egli fu un giocatore patologico, descrive in maniera eccellente l’angoscia del condannato a morte, e lui sperimentò in prima persona la condanna, ciò che si prova fino all’istante in cui ci si reca al patibolo, poi per fortuna la sua condanna venne commutata nel confino in Siberia, descrive accuratamente l’aura che avverte un epilettico che sta per soggiacere ad una crisi di grande male, perché lui soffriva di epilessia.
Sigmund Freud gli riconosce di essere un grande scrittore: “ … il suo posto viene subito dopo quello di Shakespeare [e Freud aveva una venerazione per Shakespeare]. I fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che sia mai stato scritto, l’episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile [e come dargli torto?]”. (Sigmund Freud, Dostoevskij e il parricidio, 1927, in Opere, Vol. 10, p. 521, Boringhieri, Torino).
Ma sul messaggio morale che lo scrittore russo veicola e affida ad Aleksej, che designa come protagonista del suo romanzo, anche se ciò non fa degli altri personaggi principali delle figure secondarie, anzi al di la degli intenti si fatica a distinguere un vero protagonista e diventa importante l’attore che è in scena in quel momento, perché viene rappresentato in tutta la sua grandezza e magnificenza, Freud fu più critico, fino alla durezza, nel commentarlo.
Freud che era un ateo convinto, non poteva accettare il semplicistico ed edulcorato messaggio religioso che Dostoevskij veicola attraverso Aleksej e lo starec Zosima, infatti tuona: “Anche il risultato finale del conflitto morale di Dostoevskij non è affatto glorioso. Dopo le lotte più violente per riconciliare le pretese pulsionali dell’individuo con le esigenze della comunità umana, egli finisce con l’approdare ad una posizione retrograda: si sottomette sia all’autorità temporale sia a quella spirituale, venera lo zar, ma anche il Dio cristiano, coltivando il più gretto nazionalismo russo: è un approdo, questo, al quale sono giunti, con minor fatica, spiriti meno eccelsi del suo. È qui il punto debole di questa grande personalità. Dostoevskij non è riuscito a diventare un maestro e un liberatore dell’umanità essendosi associato ai suoi carcerieri”. (Ibid., p. 521-522).










Il giudizio di Freud è eccessivamente impietoso, se fosse vero ciò che scrive noi leggeremmo con molto meno entusiasmo le opere del grande scrittore russo e molte cose ci apparirebbero incomprensibili, essendo mutati i valori (lo zar non esiste più e il potere religioso è fortemente ridimensionato in Russia) in cui egli crede; in realtà ciò che rende Dostoevskij ancora attuale e avvincente non è il candore con cui ammanta Alesä e il miele che trasuda da tutta la vicenda umana dello starec Zosima, ma il tormento interiore fra tutti i fermenti emotivi, politici e culturali che spazzavano la Russia di allora e che nella loro archetipicità anche il mondo attuale, come il buran spazza la steppa siberiana.
Dostoevskij è un uomo e uno scrittore profondamente cristiano, legato alle sue tradizioni religiose, che però ha fatto sue anche tutte le obiezioni, le critiche e la repulsione profonda che legioni di atei e di nichilisti avanzavano con sempre maggiore successo, e che rendevano il suo essere cristiano un tormento indicibile; d’altronde gli scrittori e i pensatori cristiani del XIX° secolo furono tutti senza eccezione, molto tormentati: basti pensare a Kierkegaard, Manzoni, Tolstoj, Wilde, Rilke, Pascoli, Svevo, Fogazzaro, Carducci, Pirandello, Deledda, Mann, Hesse.
Lo stesso discorso vale per la sua fedeltà al potere costituito, alla fine un uomo può sempre risolversi ad abbracciare i suoi stessi carnefici, e come altro chiamare chi ti condanna a morte e prima di commutarti la condanna in confino obbligato ti fa giungere fino al patibolo?, ma farà tutto questo non senza forti lacerazioni interiori e non senza estrema ambivalenza.    
Il suo stesso impeto rappresenta per Dmitrij il precipizio, mentre Ivan si accorge che eliminando Dio non elimina il suo senso di colpa, anzi lo accresce, perché Dio si fa garante delle azioni degli uomini, attenua la portata di quelle malvage, e rappresenta qualcuno autorevole a cui chiedere perdono e che può altrettanto autorevolmente assolverti da ogni tuo peccato con formula plenaria, se non c’è alcun Dio non è vero che non ci sia più alcun peccato, è vero anzi che il peccato diventa assoluto e irreversibile, nessuno può più perdonarti se hai ucciso tuo padre.









Ivan è costretto a sdoppiarsi, ad inventarsi un diavolo … invero molto povero e molto misero, a cui confidare la propria colpa … egli non ha voluto capire, ha preferito essere stolido e ottuso mentre il delitto veniva organizzato, ha preferito non capire che stava diventando complice, e che con la sua fuga in sostanza permetteva che avvenisse…un delitto ancora più vile di chi l’ha commesso materialmente o di chi c’è mancato un pelo che non l’avesse commesso lui, sarebbe bastato trovare Grušen’ka in casa col padre e il primo colpo di pestello da mortaio si sarebbe abbattuto sulla testa del proprio genitore fino ad ucciderlo, invece che su quella di Grigorij.
Ma Ivan non impazzisce solo perché progressivamente prende coscienza di essere stato complice consenziente del delitto, impazzisce ancora prima e di più perché non si da pace del rifiuto di Katerina Ivanovna ad accettare il suo amore, non riesce a capire e ad accettare come possa una donna di classe come lei essere sempre più innamorata di quell’animale di suo fratello Mitja, sempre più innamorata quanto più lui diventa abietto poi, da amarlo non soltanto quando la deruba dei suoi soldi, quando la tradisce, quando dichiara di voler sposare la sua amante, ma persino quando sono ormai entrambi “matematicamente certi” che sia stato lui l’assassino di suo padre.
Fin dalla prima lettura di questo romanzo mi identificavo con Ivan Karamazov, mi entusiasmava la sua filosofia atea, il suo modo di porsi, la sua verve dialettica, le pagine più belle, quelle che ho ricordato in maniera indelebile, sono quelle in cui egli narra del Grande Inquisitore, ma forse provavo simpatia per lui anche per il suo amore disperato per Katerina Ivanovna.
Credo che ciascuno di noi abbia fatto l’esperienza di amare non amato, quando questo accade, quando cioè qualcun altro è preferito a te nel cuore di colei che ami, è umano cercare di capire perché, e chi è questo rivale che ha prevalso su di te o che ti ha soppiantato; tutto ciò avviene inevitabilmente attraverso l’attribuzione di pesi e di misure, a te e all’altro, e questo ti da l’illusione di capire il perché: l’ha preferito perché è più bello, più ricco, più affascinante, più divertente … è strano, poterti dire che l’altro ha qualcosa in più di te è ugualmente doloroso, ma più consolante.









L’eventualità inaccettabile si verifica quando alla fine della tua disamina, stabilisci che l’altro è palesemente meno di te, quando l’altro non ha alcuna qualità con cui possa predominare al tuo confronto, quando anzi è chiaramente e nettamente inferiore rispetto a te … questa eventualità ti fa contorcere dal dolore come un serpente che si avvolga in una spirale quando viene colpito, perché una cosa così non ha senso di esistere.
Se per il disgraziato che perde l’amore tutto questo è doloroso e catastrofico, dal punto di vista di chi guarda tutto questo suo affannarsi a far paragoni dall’esterno, tutto diventa ridicolo, quand’anche riuscisse ad identificarsi col malcapitato; non mi viene in mente niente di più calzante del film di Troisi Pensavo che fosse amore invece era un calesse quando Tommaso cerca conferme disperate circa i difetti del suo rivale Enea e trova invece, inspiegabilmente per lui, solo apprezzamenti persino dai suoi amici più cari.
Naturalmente, tutti questi paragoni sono semplicemente assurdi e ridicoli, ciascuna persona è diversa da un’altra, è unica, il pensare di poter valutare le persone in base ad alcuni parametri che tutti possiederebbero chi più e chi meno non trova alcun fondamento ed è un’operazione senza senso, ma che distoglie temporaneamente dal dolore del rifiuto; nemmeno io qui riuscirò a farne a meno, perché il romanzo ne è infarcito, tanta follia e tanta sofferenza derivano proprio dal quel sentirsi “più” o “meno”, e senza questi avverbi comparativi non si comprenderebbe la trama.
Pensate, persino il primo peccato, la prima trasgressione, il nutrirsi del frutto dell’albero del bene e del male avviene perché non ci si vuol sentire da meno di Dio, si vuole essere come lui; e il primo omicidio, Caino che uccide Abele, è perché non si accetta che l’altro sia preferito, sia considerato migliore di noi.









Ivan si rende conto che per una donna come Katerina l’uomo più adatto per poterle stare al fianco è lui e non il fratello Mitja, egli è pari a lei per bellezza, per intelligenza, per cultura, per maniere raffinate, per orgoglio … e ciò non lo capisce solo lui, lo capisce anche lei, lo capisce così tanto che dopo essersi accorta di amarlo esclama con rammarico: “…mi era penoso che un uomo del suo calibro potesse sospettare che io amassi ancora quell’altro …Io volevo cadere ai suoi piedi per la venerazione …” (p. 1039).
E lo stesso Dmitrij sembra convinto fin dall’inizio della diversità fra lui e suo fratello Ivan e che probabilmente egli sarebbe stato il marito più adatto per Katerina Ivanovna, ad Alëša egli dice infatti: “Quanto a Ivan, capisco benissimo quanto adesso debba maledire la natura, a maggior ragione con l’intelligenza che si ritrova! A chi, a che cosa viene data la preferenza? Viene data a un mostro, che anche qui, sebbene sia fidanzato e abbia addosso gli occhi di tutti, non riesce a porre freno alla propria depravazione, e questo in presenza della sua fidanzata! Ecco, viene data la preferenza a uno come me, mentre lui viene respinto. Ma per quale motivo? Perché la fidanzata vuole violentare la propria vita e il proprio destino per gratitudine! Che assurdità!” (p. 165-166).
Anche a Katerina Ivanovna non viene risparmiata l’onta di essere soppiantata da una donna, Grušen’ka, che è in tutto meno di lei: meno bella, anzi, per quanto avvenente, Dostoevskij descrive quest’ultima come una bellezza ordinaria, di quelle matronali, alla russa, prosperosa e piena di curve, ma di quelle che già a trent’anni si sformano e diventano delle mongolfiere, con qualche irregolarità nei lineamenti per il resto di una bellezza selvaggia, mentre Katerina Ivanovna è tout court una “bellezza da mozzare il fiato”, sempre e comunque e che quando si arrabbia diventa ancora più bella.
Katerina è anche più fine, più colta, più intelligente, più amabile di Grušen’ka, solo un mostro, un animale come Mitja Karamazov poteva preferire la seconda alla prima; Katerina non riesce nemmeno a sospettare che l’amore/odio che lei inocula a Dmitrij potrebbe uccidere un rinoceronte soffocandolo e che forse Grušen’ka è solo un po’ più umana di lei, che finisce per spezzare gli unici due uomini della sua vita, facendo condannare l’uno come assassino e patricida e facendo piombare l’altro nella follia.









Certo, Dostoevskij lascia un margine di speranza a chiusura del suo romanzo, molto probabilmente Mitja riuscirà a scappare prima di arrivare in Siberia, grazie al piano e ai soldi di Ivan stanziati per corrompere le guardie, e Ivan si riprenderà dalla sua follia, in fondo, se non vado errato, sembra trattarsi di un primo episodio di psicosi delirante acuta, quegli accessi o bouffées accompagnati da delirio acustico e visivo e da stati oniroidi, con esordio improvviso e tanto acuti ed allarmanti quanto, nella loro gravità e drammaticità, tendenti a sparire con la stessa repentinità con cui sono comparsi.
Questo naturalmente non vuol dire che Ivan soffra di una sciocchezza, in realtà l’esordio delle bouffées è comunque inquietante, ed in presenza di altri shock emotivi, potrebbe ritornare in modo più intenso e perdurare più di prima, esse possono essere porte girevoli che si affacciano sulla follia; inoltre non va dimenticato che esiste una familiarità, la madre di Ivan era soprannominata la klikuša ed è morta completamente folle.
La grande sconfitta di questo romanzo è proprio lei, alla fine, la nostra anima bella, Katerina Ivanovna, che può finalmente amare Ivan Karamazov perché questi è pazzo, mentre non poteva amarlo quando non lo era, quando lui non aveva bisogno di lei, mentre non ama più Mitja, che col suo amore strampalato per  Grušen’ka, con i suoi gesti da mascalzone, col suo disprezzo negli occhi per chi si stava vendendo a lui per quattromila e cinquecento rubli, con l’essere dietro solide sbarre e in procinto di andare in Siberia o forse negli Stati Uniti con la sua nuova donna, si è affrancato completamente da lei, mentre prima quando era solo, disperato e bisognoso avrebbe dedicato tutta se stessa per salvarlo.
Anima bella è colei che è emotivamente insensibile, quella che davvero non riesce a decifrare i sentimenti propri e quelli altrui, quella che non sa se ama o se odia, e non sa quali sentimenti davvero stia provando e non crede a quelli che qualcuno le dice di provare per lei (e come potrebbe capire ciò che non ha mai provato?), perché tutto in lei è un confuso, magmatico, caleidoscopico susseguirsi di vaghe ed impalpabili sensazioni.
Anima bella è chi pare indifferente alle conseguenze dei suoi gesti, può dire di amarti e rinnegarlo come niente solo un istante dopo, odiarti e vanificare il suo stesso odio subito dopo come se niente fosse mai successo, è colei che può pugnalarti senza che nemmeno se ne accorga, colei che mostra un’infinità bontà, candore e soavità, e sembra non capire che la sua bontà uccide più di qualunque cattiveria.
Tutto ciò che compie Katerina Ivanovna è ispirato dalla sua virtù, non c’è niente che non sia bontà in uno staro di purezza assoluto, è per bontà che lei si offre in olocausto al mostro per salvare il padre, è per bontà che vuole salvare Dmitrij da se stesso, che gli da i soldi, che tiene continuo convegno con i fratelli di lui perché intervengano, che vede in casa sua la sua rivale tentando un accordo con lei, è per bontà che si avvicina ad Ivan, si preoccupa per lui e, infine, lo ama.
Non importa poi se tutti coloro che lei beneficia o che ama precipitino sempre di più, non importa se il suo amore susciti in tutti odio e rabbia, non importa se succederà la catastrofe del patricidio, in cui nessuno dei fratelli può dirsi davvero estraneo: o perché ha materialmente commesso il delitto, o perché è stato molto vicino a commetterlo lui, o perché l’ha desiderato anche se non l’ha commesso, o perché se n’è fatto complice non volendo comprendere i disegni dell’assassino e lasciandogli campo libero col suo viaggio o inseguendo altre faccende.
Dostoevskij pare presupporre che in realtà dietro la sua bontà ci fosse cattiveria (l’orgoglio), dietro l’amore l’odio, come se questo sentimento fosse più antico, primigenio rispetto all’amore e alla bontà, pare suggerirci che l’amore frustrato o l’amore che pensiamo a torto o a ragione non sarà accolto si sia tramutato in odio, e l’odio in amore … continuamente.
Io, più semplicemente, credo che l’anima bella non sappia distinguere fra amore ed odio, e ciò che a lei sembra amore può essere odio e viceversa, ciò che le pare un farmaco in realtà si svela come veleno, ciò che per lei è carezza una pugnalata, e non sa distinguere fra l’uno e l’altro, pur di continuare il suo gioco; l’anima bella, infine, è colei che ha un destino fra i più tragici, perché è condannata a distruggere sempre e comunque, con un accanimento senza pari, e non rendendosi conto di distruggere, anzi è la prima a meravigliarsi che gli altri la ricambino con la rabbia, tutto ciò che di bello le capita nella vita.