lunedì 2 maggio 2016

LE GRAND PARTAGE




« Sentinella: "Chi va là?"
Oreste Jacovacci: "Ma che fai aoh, prima spari e poi dici chi va là?"
Sentinella: "È sempre mejo 'n amico morto che 'n nemico vivo! Chi siete?"
Oreste Jacovacci: "Semo l'anima de li mortacci tua!"
Sentinella: "E allora passate!" »
(La grande guerra, di Mario Monicelli, con Vittorio Gassman e Alberto Sordi, 1959).


(Tutti romani ... e camurristi anche!)







A causa di un’ondata anomala di freddo rigido e persistente, per trovare un alloggio e un riparo ai numerosi senzatetto che popolano la Francia (a Parigi nelle metropolitane ci sono più clochards che treni in partenza), numero vieppiù aggravato dalla crisi economica e dalle ondate di immigrati che giungono in Europa, il governo francese (di sinistra) firma un decreto che requisisce tutte le abitazioni sfitte e, non essendo questa misura sufficiente, impone ai cittadini di ospitare un numero di sans logis pari ai metri quadri e ai vani di abitazione disponibili.
Tranquillizzatevi, è una misura che nemmeno la Cina di Mao avrebbe potuto prendere, nessuno può invadere la vostra abitazione privata e imporvi di ospitare degli estranei, ma nel film è una trovata che funziona, nessuno la trova grottesca o paradossale, forse perché anche se non è reale fa parte delle nostre paure.
Ricapitolando, si incrociano, dunque, tre delle nostre principali paure in questo film: da un lato i cambiamenti climatici, caldi, freddi, siccità, piogge torrenziali, alluvioni, sempre più frequenti ed improvvisi, che causano disastri ambientali e problemi alla viabilità e all’agricoltura; dall’altro la grande crisi economica che ci colpisce e che rende incerto e vagamente pauroso il nostro futuro e, infine, la “pacifica” invasione di migliaia di persone provenienti dall’Asia e dall’Africa che giungono sulle nostre coste con barconi di fortuna o che tentano di attraversare le nostre frontiere con ogni mezzo lecito e illecito, che ci fa temere che dovremmo spartire la nostra ricchezza, il nostro benessere, con degli estranei, che diventeremo tutti più poveri, che la nostra identità personale, sociale e religiosa sia messa in crisi dal confronto col diverso.
Tema unificante è questa grande spartizione che temiamo più di ogni altra cosa, non a caso il film originale si intitolava Le grand partage (malamente tradotto in italiano con Benvenuti … ma non troppo), ed è da questa paura della grande spartizione che nasce tutta la comicità di questo film, dall’osservare, come se fossimo dei biologi naturalisti, dei piccoli Linneo o Darwin, cosa succede date queste premesse nel 6° arrondissement, uno dei quartieri residenziali più chic di Parigi, nella Rive Gauche, in cui i palazzi più belli, eleganti e nobili della città sono abitati dall’alta borghesia cittadina.
Impietosamente la regia tratteggia dei ritratti che condensano gli stereotipi più biechi della borghesia parigina: la coppia di ebrei misantropi, che preferiscono abitare in un buco di appartamento che prendono in affitto per l’occorrenza, pur di non coabitare con degli estranei nel proprio appartamento spazioso, e che quando lui le dice che vuole uscire a parlare con qualcuno dopo giorni di auto-segregazione, lei lo guarda stupita e gli replica: “Ma che bisogno c’hai, ci sono qua io ….”.







Il signore eccentrico che esce a far la spesa con un’elegante pelliccia, che accoglie molto favorevolmente questa coabitazione forzata perché così si sentirà meno solo; la portinaia che assomiglia a Marine Le Pen non solo nel modo di pensare, ma anche fisicamente.
Poi c’è la coppia di sinistra radical-chic, lei professoressa universitaria impegnata nelle proteste, nelle lotte per i diritti civili, che incita i suoi studenti e ne è apprezzata, ma che inorridisce al pensiero di condividere la sua casa con gli estranei e i “diritti civili” da lei propugnati diventano carta straccia nel momento in cui è costretta a tradurli in pratica, una che non esita a sfruttare la notorietà del marito scrittore di successo  per avere delle agevolazioni dalla funzionaria statale addetta a distribuire i senzatetto nelle varie abitazioni.
Il marito avrà avuto di certo grandi ambizioni letterarie in passato, forse avrebbe voluto scrivere dei libri più impegnati, produrre una narrativa di spessore, ma è finito per scrivere romanzi d’amore, una prosa romantica di successo, per potersi permettere il benessere i cui gode insieme alla sua famiglia. I titoli dei suoi libri sono monotonamente emblematici: Paradiso verde (una storia d’amore ambientata in campagna), Paradiso azzurro (una storia d’amore ambientata al mare), e progetta di scrivere Paradiso bianco … una storia d’amore ambientata nella neve di quel grande freddo  insolito; l’assonanza con romanzi reali che sono diventati dei best seller come Cinquanta sfumature di grigio, Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rosso è persino imbarazzante.
Poi c’è il palazzinaro conservatore e reazionario che vota da sempre a destra, che critica tutto e tutti eccetto se stesso, che non è simpatico a nessuno e che è un estraneo persino per sua moglie (con cui non ha più rapporti sessuali, senza per questo avere rapporti con altre donne), con sua figlia e con sua madre che ha messo in una lussuosa casa di riposo.
La moglie che non fa alcun lavoro anzi, che non ha mai lavorato, e che impiega tutte le sue energie a trascorrere le interminabili ore di una giornata, nel vuoto più assoluto e tradendo del tutto i suoi desideri, la sua volontà e il suo piacere (persino l’idea di fare sesso col marito le giunge da un programma televisivo di quelli pseudo-culturali che si occupano del benessere psicofisico e che le trasmette l’idea che questo faccia bene per le coronarie).







In un contesto in cui non basta appartenere alla stessa classe sociale, non basta essere gli ultimi parigini che abitano un quartiere per soli parigini benestanti, non basta non avere problemi economici e grosse preoccupazioni finanziarie per il futuro, perché siamo diventati gli uni estranei o francamente ostili con gli altri, i vari inquilini di quel palazzo sito al civico 86 di rue du Cherche Midi, si ignorano o si disprezzano cordialmente gli uni con gli altri.
Anche i nuclei familiari reggono solo nell’apatia, nella monotonia e nell’estraneità reciproca, con liti che non sono mai definitive e, di solito, con qualcuno che nella coppia è succube volontario dell’altro e che lo segue sostanzialmente nelle sue idee politiche, sociali, nelle sue ambizioni, persino nelle sue grettezze e meschinerie (non fatevi ingannare da qualche gracile protesta, che è soltanto formale e non sostanziale), senza il quale molte di queste coppie si sarebbero già disgregate.
Insomma, non andiamo d’accordo nemmeno fra francesi, fra persone di pari censo sociale, fra mariti e mogli, fra genitori e figli e volete che andiamo d’accordo fra estranei, fra agiati borgesi e senzatetto, fra francesi e persone che provengono da culture di cui sappiamo poco e che parlano una lingua totalmente diversa dalla nostra?   
La trovata del film non è tanto giocare comicamente con gli stereotipi, far girare lo stereotipo nello spremilimoni di una macchina da presa in modo da strizzare ogni suo succo comico fino alla fine del film, come fanno abitualmente quasi tutti i film comici italiani, che i protagonisti della nuova commedia all’italiana si chiamino Paolo, Luigi, Giovanni, Clara, Berenice o Giuditta poco importa e altrettanto poco ce lo ricordiamo, ma nessuno di noi che va a vedere un film comico italiano dimentica la macchietta di quello col lavoro sicuro a tempo indeterminato, del burino di provincia che si ritrova a Roma o a Milano, della psicologa che ha un rapporto molto conflittuale con la figlia adolescente e una relazione con un amico del marito, del cazzone che non ha mai concluso niente nella vita ma che è pieno di ambizioni e si sopravvaluta, tanto da passare da un fallimento all’altro e che adesso fa il tassista, ma intanto ha già messo in vendita la licenza perché l’era del taxi è finita e sta pensando all’idea geniale che lo arricchirà, come già prima si era lanciato nella sigaretta elettronica e in tantissime altre bolle di sapone.
Del tizio, gay represso incapace di confessarlo ai suoi stessi amici e di presentare loro il suo compagno Lucio, che spaccia per Lucilla, perché tanto lo distruggerebbero di critiche, perché in fondo in fondo un gay per loro è soltanto un “frocio”, così come una schiappa è una schiappa, sebbene sia un amico, e lo si contatta a calcetto solo se manca il portiere.







O ancora il tipo col un matrimonio naufragato anzitempo, in cui lui e la moglie non si guardano più, non chiariscono nulla, continuano a coabitare nel silenzio reciproco più assoluto, con segreti enormi che non riescono neppure a sfiorare, con i figli da crescere e lui invia i suoi sms dal cesso all’amante che si suppone molto più giovane di lui e l’amante ogni sera alle 22.00 gli invia una sua immagine osé, mentre la moglie gioca con uno sconosciuto incontrato in rete, che la sollecita ad uscire senza gli slip.
Il film in questione, Perfetti sconosciuti, ruota tutto non su persone reali, ma su stereotipi che girano incontrandosi l’un l’altro per tutto il film, non escono mai dalla parte, non cambiano, inseguono soltanto incroci comici e ti lasciano quell’illusione dello stereotipo come realtà anche al di fuori del film.
In un’epoca in cui il posto fisso non esiste quasi più Checco Zalone impernia il suo film più di successo tutto sullo stereotipo dell’impiegato col posto fisso, al di fuori della sala cinematografica chi arranca dietro ai contratti a progetto, a quelli interinali, ai Co.Co.Co., al precariato, odia profondamente l’impiegato pubblico col posto fisso, che non fa un cazzo, che magari ha pure un secondo lavoro, è assenteista, corrotto ed è stato sicuramente raccomandato, seppure ormai questa figura quasi non esiste.
La la comédie a l’italienne, o ciò che ne rimane, non fa più ridere (salvo poche eccezioni come ad esempio Smetto quando voglio), o insegue la risata facile fatta di battute volgari, di barzellette, di vaudeville; alla fine del film non ti lascia niente su cui riflettere, niente che ti scuota, dopo un po’ confondi i film, i personaggi e le situazione di un film con un altro, perché fanno parte della stessa barzelletta che ci raccontiamo quotidianamente in Italia in questi ultimi anni, della barzelletta che siamo diventati.
Non ci sono più grandi idee comiche, anche i comici migliori sono surclassati dalla realtà, pensate a quale scrittore o sceneggiatore di commedie avrebbero mai pensato che un Presidente del Consiglio in carica potesse telefonare in questura, dove era stata appena arrestata una ragazza di origini marocchine per furto e prostituzione, e chiedere di scarcerarla per evitare l’incidente internazionale perché si trattava della nipote di Mubarak.







Anche quando copiamo dai francesi lo facciamo male, io ho riso molto di più con Bienvenue chez les Ch'tis, giunto a noi come Giù al nord, l’originale francese, seppure la comicità tradotta perde sempre smalto, che non con Benvenuti al nord o Benvenuti al sud, che ne sono stati i remake italiani  … mosci, con le stesse identiche battute del film francese, con caratteristi e cabarettisti al posto di attori veri, senza alcuna tentazione di migliorare l’originale o anche solo di renderlo più fruibile al pubblico italiano.
I film francesi di questi ultimi anni fanno ridere molto più delle nostre commedie, ricordo solo quelli che sono giunti a noi da La cena dei cretini, i Visitatori, il già citato Giù al nord, Non sposate le mie figlie e quest’ultimo Benvenuti … ma non troppo.
Il motivo principale è che danno molto più spessore ai personaggi e all’intera storia, pur partendo dagli stereotipi, anche pesantemente tratteggiati, se ne sottraggono pian piano, non li portano avanti per l’intero film, fanno emergere una realtà più complessa (così come la realtà è in effetti) e la complessità dei personaggi che stentano ad identificarsi con lo stereotipo che ci facciamo di loro.
Nel film in questione ben presto la differenziazione droit et gauche (destra e sinistra) svanisce, il reazionario diventa progressista, il razzista diventa solidale, lo stronzo conservatore arriva a solidarizzare con i clochard, a visitare i ponti dove dormono, ad ospitarli a casa, a cercare di conoscerli, la moglie che non voleva in casa neppure la suocera, si autodenuncia e denuncia tutto il palazzo perché hanno barato nell’accogliere i senzatetto, la coppia di sinistra che predicava l’accoglienza e la solidarietà si scopre più reazionaria, classista e razzista dei suoi vicini di destra.
I protagonisti oscillano, come tutte le persone vere, fra aperture, slanci verso il prossimo e ritiri, diffidenze, incomprensioni, incomunicabilità, ripensamenti e chiusure repentine; ma non è finita, dopo essere passati da tutte le tonalità di convinzioni, di emozioni e sensazioni che può provocare questa convivenza forzata, dopo aver messo in discussione e rinnegato idee, posizioni politiche e pure impressioni negative sugli altri, finita l’emergenza tutto sembra ritornare esattamente come prima e ciascuno va ad indossare il suo stereotipo di prima come il travet indossava la sua grisaglia.








Il problema è troppo grande e le prese di posizione, gli slogan sociali e politici sono insufficienti quando ti trovi immerso nella sua concretezza, è facile per chi abita nei quartieri esclusivi considerare rozzi e razzisti gli abitanti delle periferie che si rivoltano contro l’ennesima concentrazione-ghetto di immigrati in quelle zone: non dobbiamo cedere alla paura, ai timori spesso infondati, ma non posiamo certo trascurare la naturale diffidenza, il senso di pericolo e ciò che può rappresentare una massiccia  introduzione di stranieri in un quartiere cittadino.
La cosa più sconcertante in tutto questo è che il cinema italiano ha disimparato a far film di successo, a far commedie vere, anche noi come lo scrittore del film francese produciamo solo Paradisi di ogni colore e abbiamo rinunciato quasi del tutto a film che rimangano nella storia della cinematografia.
In fondo, se vogliamo, la formula che usano adesso i francesi l’abbiamo inventata noi, pensate alla Grande guerra di Mario Monicelli, anche in quel caso si parte da due stereotipi massicci che per quasi tutto il film Vittorio Gassman e Alberto Sordi faranno di tutto per rappresentare adeguatamente, quelli di due furbi matricolati che le studiano tutte per non partire per il fronte, che fanno di tutto per sottrarsi al fuoco e ai pericoli del conflitto, quelli del polentone milanese e del terrone romano, quelli dell’italiano bonaccione e pacioccone più che pacifista, quella dei furbi e dell’arte di arrangiarsi.
Poi, alla fine, però, questi due antieroi per eccellenza, si riscattano per una questione di orgoglio ferito, l’ufficiale tedesco che li interroga si lascia scappare un commento sprezzante perfettamente comprensibile dai due, in cui dice all’altro commilitone presente all’interrogatorio che gli italiani non sanno nemmeno cosa sia il coraggio, il fegato, l’unico fegato che conoscono è quello alla veneziana, con la cipolla, che ben presto mangeranno anche loro dopo aver occupato Venezia.

I due reagiscono coraggiosamente, insultando l’ufficiale nemico e chiudendo ogni possibilità di collaborazione (erano staffette che trasportavano i piani, gli ordini e altre informazioni cruciali sul contrattacco italiano sul Piave), e per ciò vengono fucilati come spie nemiche.