martedì 13 maggio 2014

AI PAMPINI CHE NON FIORIRONO, AL CALICANTO CHE NON SBOCCIÒ … 2



Gentile Bellini, Processione in Piazza San Marco, Gallerie dell'Accademia, Venezia, 1496.





Questo post segue ed è la naturale continuazione di quest'altro, se avete la pazienza, la bontà e il tempo a vostra disposizione vi consiglio di leggerli in sequenza, altrimenti non importa … entriamo nella vita che è già iniziata ed impariamo di più dall’esperienza diretta che da quelle trasmesseci dalla cultura o da qualsiasi riassunto delle puntate precedenti, non vedo perché non possiamo iniziare a leggere a partire dal punto che meglio ci aggrada.






Il Querini e gli altri veneziani rimasero circa quattro mesi nell’isola, ospiti degli indigeni, egli di questo soggiorno scrisse una relazione dettagliata che è oggi conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana, in cui annota quei fenomeni che più lo colpirono, come la descrizione del cosiddetto “sole di mezzanotte” e della “notte polare” resa con queste parole:

« Per tre mesi all’anno, cioè dal giugno al settembre, non vi tramonta il sole, e nei mesi opposti è quasi sempre notte. Dal 20 novembre al 20 febbraio la notte è continua, durando ventuna ora, sebbene resti sempre visibile la luna; dal 20 maggio al 20 agosto invece si vede sempre il sole o almeno il suo bagliore …».

Non è difficile cogliere tutto lo stupore di questi uomini abituati ad una scansione giornaliera fra il giorno è la notte che oscilla in ritmi di circa dodici ore ciascuno (con escursioni stagionali in cui la durata del giorno prevale su quella della notte, seppur di poche ore, e viceversa), che si trovano in un luogo della terra a loro sconosciuto in cui è sempre notte per quasi tutto il periodo della loro permanenza.
Una notte, invero, molto più illuminata di quelle che solitamente conosciamo, perché le nostre notti possono essere più o meno illuminate dalla luna in base al suo ciclo e alle sue fasi crescenti o calanti, o dalle stelle se non c’è foschia, mentre nelle latitudini inferiori al Circolo Polare Artico, fino a circa il 60° parallelo, è possibile scorgere un chiarore crepuscolare dovuto al fenomeno della rifrazione della luce del sole dopo il suo tramonto.
Fëdor Dostoevskij ambienta nelle notti crepuscolari di San Pietroburgo uno dei suoi romanzi giovanili più riusciti: Belye noči (Le notti bianche); lirico, romantico e crepuscolare, ti da subito l’idea che quelle vicende, così come sono narrate, possono accadere solo in una città che è la più europea di quelle russe, che si trova al 59° parallelo, al confine fra la zona polare e quella temperata, in un’epoca storica in cui la Russia era attraversata da tutta una serie di cambiamenti che sfoceranno nella Rivoluzione di ottobre ma che al momento sembrano alternarsi fra il nulla politico, sociale, culturale ed esistenziale del nichilismo e la promessa di realizzabilità di un paradiso terrestre dove ogni ingiustizia, disuguaglianza, affanno vitale, non abbiano luogo ad esistere, dei movimenti socialisti e comunisti.
Nulla a che vedere, dunque, con quelle ridicole “notti bianche” che hanno preso il via a fine millennio a Berlino, e si sono propagate immediatamente come la gramigna a molte altre grandi città del mondo, in cui durante l’arco di una notte si organizzano iniziative culturali e di intrattenimento, con l’apertura di musei, luoghi di interesse storico, parchi archeologici, locali di intrattenimento, bar e negozi, in un tripudio commerciale in cui gli interessi economici passano per cultura, e la cultura e l’arte seguono le logiche dell’economia, invece che quelle del cuore.





Noi uomini che viviamo nella fascia temperata del globo terrestre rimaniamo attoniti da tale spettacolo, perché siamo abituati all’alternanza giornaliera del giorno e della notte, della luce e del buio e siamo sempre in affanno nel nostro rapporto col tempo, perché le ore del giorno non ci bastano per fare tutte le cose che vorremmo fare, e vorremmo spesso un giorno più lungo per portare a termine ogni cosa, mentre otto ore ci sembrano troppo poche talvolta per le faccende d’amore, in quel breve arco di tempo non prendiamo nient’altro che un assaggio delle delizie che in genere ci riserva e siamo costretti dal desiderio a rinnovare costantemente questi momenti e questi incontri, ad inseguirli, per cui l’amore diventa mancanza di respiro, dispnea, piacere sempre incompleto.
E davvero era il caso che la notte si protraesse quanto più possibile perché questi uomini della Serenissima Repubblica di Venezia, dopo essere scampati al naufragio e alle correnti di deriva che li sballottarono nell’atlantico su di un guscio di noce, approdarono su qualcosa di molto simile, per loro, al paradiso.
Il clima, nonostante fosse inverno, era relativamente mite per quella latitudine a causa delle temperate correnti del Golfo, circa la bellezza dei luoghi basterebbe dare un’occhiata alle immagini che tentano di descriverli, per capire che il mondo possa essere bello anche in zone così a nord, ma ciò che rese sublime e indimenticabile il loro soggiorno fu la calorosa ospitalità dei norvegesi, Querini scrive:

«Questi di detti scogli sono uomini purissimi e di bello aspetto, e così le donne sue, e tanta è la loro semplicità che non curano di chiuder alcuna sua roba, né ancor delle donne loro hanno riguardo: e questo chiaramente comprendemmo perché nelle camere medeme dove dormivano mariti e moglie e le loro figliuole alloggiavamo ancora noi, e nel conspetto nostro nudissime si spogliavano quando volevano andar in letto; e avendo per costume di stufarsi il giovedì, si spogliavano a casa e nudissime per il trar d'un balestro andavano a trovar la stufa, mescolandosi con gl'uomini (...)».


Giuseppe Bernardino Bison, Ballo in maschera, Museo Civico Revoltella, Trieste. 





Di questa “ospitalità” rimane tuttora qualche traccia nei tratti somatici dei discendenti di quella antica popolazione e fu talmente piacevole constatare che essa era assolutamente gratuita, che si riverbera tutta la sorpresa lo stupore a e lo sbalordimento nelle parole che il gentiluomo veneziano usa per farne partecipi i notabili della sua Repubblica; egli infatti prosegue:

«…gli isolani, un centinaio di pescatori, si dimostrano molto benevoli et servitiali, desiderosi di compiacere più per amore che per sperar alcun servitio o dono all’incontro…».

I sedici veneziani superstiti già erano grati agli abitanti dell’isola di Røst per averli salvati dal naufragio, nutriti, accolti fra di loro, ospitati, ma travalicava ogni loro possibilità di comprensione il fatto che le norvegesi (e Querini ci tiene a sottolineare quanto fossero belle e ben fatte) si comportassero con loro con calore, con spontaneità e, se qualcuno degli ospiti era particolarmente gradito, gli si offrivano anche sessualmente, trattando così la sessualità come una cosa naturale, come un’esigenza al pari delle altre, come la fame, la sete, il freddo.
I marinai veneziani erano tutti uomini, non avevano delle donne con loro, per gli abitanti di quelle isole era del tutto naturale che avessero dei desideri sessuali verso le loro donne, era altrettanto naturale che quelle donne potessero desiderarli, era dal tutto naturale che, sposati o no, accadesse lo scambio sessuale, senza drammi, senza gelosie, senza problemi di adulterio o delle ritorsioni violente che si sarebbero avute altrove; insomma, era così naturale che il sesso sembrava far parte dell’ospitalità accordata loro.
E non si trattava semplicemente dell’offrire le proprie donne agli ospiti, come accade in alcune popolazioni, come ad esempio gli inuit o gli eschimesi, in quei casi la concezione della donna è quella di una proprietà, come i propri utensili, la propria slitta, il proprio coltello, che l’uomo offre in prestito all’ospite; fra i norvegesi furono le donne, in una cultura paritaria fra maschi e femmine e che considera il sesso come un fatto naturale e non come un peccato e il partner come un compagno e non come un oggetto, a decidere di concedersi.



Giovanni Antonio Canal detto il Canaletto, Il ponte dell'Arsenale, Collezione privata (Woburn Abbey), 1730-31.


Non ci stupisce, dunque, che i veneziani fossero sbalorditi da tutto questo, e soprattutto lo erano perché tutto ciò avveniva “più per amore che per sperar alcun servitio o dono all’incontro”, una simile ospitalità avrebbe stupito anche noi; per meglio comprendere il loro (e il nostro) stupore dovremmo ribaltare con la fantasia i ruoli stabiliti dal destino, immaginare, cioè, cosa sarebbe accaduto se invece di 16 veneziani naufragati in un arcipelago scandinavo, fossero naufragati 16 uomini scandinavi a Venezia (lo so che non ci sono correnti che possano far naufragare un relitto nella laguna veneta, ci sono solo le “correnti turistiche” che portano migliaia di persone da tutto il mondo, ma fate uno sforzo di immaginazione).
Certamente questi uomini sarebbero stati tratti in salvo, idratati e nutriti, fors’anche ospitati per breve tempo, quanto basta perché si rimettessero in forze, poi se avessero voluto prolungare la loro permanenza oltre i giorni stretti del rifocillamento o se fossero stati impediti di mettersi in viaggio immediatamente per qualsiasi motivo, gli scandinavi avrebbero dovuto pagarsi il loro vitto e alloggio in denaro se ne avevano o col lavoro.
E non crediate che gli avrebbero offerto un lavoro alla pari, delle pari opportunità, in quanto forestieri (per il veneziano esistono tre categorie di uomini al mondo: città, cioè i veneziani “purissimi”, quelli di Santa Lucia, perché i mestrini sono già tagliati fuori; campagna, cioè tutto il contado, quelli che una volta erano i possedimenti sulla terra della Serenissima Repubblica di San Marco, che venivano usati come foresteria, con buona pace dei vecchi e dei nuovi “serenissimi” che vorrebbero riesumare il “glorioso” passato; e foresti, cioè tutti coloro che, cittadini del mondo, non hanno l’orgoglio e il privilegio di appartenere a Venezia) avrebbero dovuto accontentarsi dei lavori più umili, perché quelli più nobili sono appannaggio dei cittadini legittimi.
In quanto a fare le cose “per amore”, senza sperare in alcuna mercede, il veneziano dubito molto conosca il significato di questa locuzione, pur non essendo sparagnino come un genovese (e lo dico con cognizione di causa, perché anni fa ospitai per 15 giorni nella casa dei miei in Sicilia sei amici conosciuti a Genova, i quali si presentarono con un vasetto di 120 gr. di pesto genovese, come se fosse una sacra reliquia), ed essendo, anzi, piuttosto incline al lusso e allo sfarzo, è invero un po’ bottegaio, un po’ commerciante e un po’ predone.
La ricchezza, la potenza e la bellezza di Venezia, d’altronde, sono il frutto di traffici, di commerci e di saccheggi, la povera Santa Lucia fu trafugata ai bizantini durante il sacco di Costantinopoli nel 1204, nel corso della quarta crociata, che a loro volta l’avevano trafugata ai siracusani, che a loro volta l’avevano uccisa decapitandola; la quadriga di cavalli di rame che potete ammirare sulla terrazza della Basilica di San Marco proviene anch’essa da Costantinopoli, si trovava originariamente nell’Ippodromo di quella città e a sua volta proveniva dalla Grecia, forse opera del grande Lisippo, nel 1797 Napoleone la impacchettò e se la portò a Parigi, ma ritornò a Venezia dopo la sconfitta dell’imperatore francese, grazie all’interessamento del capitano Dumaresq e dell’imperatore d’Austria. Anche fregi, marmi pregiati, monili, utensili, molto oro, argento e pietre preziose, e reliquie, che ornano e rendono orgogliosa la città, provengono in parte da saccheggi e trafugamenti, e in parte da “onesti” commerci.





Il viaggiatore che si trovi a Venezia, da qualche secolo a questa parte, da quando almeno Venezia non possiede più un piccolo impero e non è più padrona dei commerci e regina del Mediterraneo, quella che convogliava le lunghe catene di commercianti beduini che percorrevano le cosiddette via della seta o via delle spezie, che dalla Cina, dal Giappone, dall’India, dall’Arabia Felix, portavano fino alle coste   del mar Mediterraneo, toccando città esotiche, dall’alone di favola, come Samarcanda, Antiochia, Petra, Costantinopoli (o Bisanzio o Istanbul), Alessandria, Edessa, Damasco, può ammirare una città esposta ogni giorno come una vecchia baldracca ancora piacente, ancora dotata di quella bellezza e di quel fascino che le conferiscono i secoli, il lusso e lo sfarzo che la circondano, l’orgoglio e i modi raffinati da vecchia signora che sa ancora porsi con un garbo e una grazie infinite, che non si trovano più da nessun’altra parte al mondo.
Di questa città/donna non ami tanto le bellezze attuali, ma attraverso ciò che si è conservato di quell’antico splendore ami nostalgie ed epifanie di un’arcana bellezza che, seppure solo intuita, adombrata, vagheggiata, è pur sempre migliore delle bellezze standardizzate e globalizzate, private cioè di qualche caratteristica che le renda uniche e irripetibili, di tante città più moderne.
Ma l’anima un po’ bottegaia un po’ da filibustiere del veneziano è rimasta perfettamente intatta, e tratterà il turista come un re solo se ha la borsa ben fornita di denari, come il re di denari appunto; la sua ospitalità sarà squisita, i suoi modi cortesi e raffinati, il suo sorriso garbato, il suoi inchini e le sue piroette degne della commedia dell’arte, vi farà sentire “siore e parone” finché voi sarete come Pantalone de’ Bisognosi, non tanto per l’avarizia, quanto perché alla fine è quello che paga sempre il conto, o che vi comportiate come Colombina, un po’ civetta, briosa, allegra, scaltra, graziosa, deliziosamente bugiarda, con la tendenza a cacciarsi nei guai e a ingelosire chi la ama (come Arlecchino), o a beffare e a fare innamorare qualche vecchio trombone (come Pantalone), maliziosetta, sbarazzina, manesca con chi le manca di rispetto ma di facili costumi con chi le aggrada.
Niente è gratuito in questa città, niente è regalato, niente vi viene dato per amore e troverete amore solo se lo portate con voi al vostro fianco; a ben vedere il turista lascia in questa città più di quello che prende, paga profumatamente per un sogno che, come tutti i sogni, reca con sé la parvenza di essere un dono e quasi nessuno si rammarica alla fine dell’alleggerimento consistente della sua borsa.





Nessuna donna veneziana avrebbe regalato le sue grazie senza compenso, senza niun guiderdone, ai giovani e baldi norvegesi, seppure fossero “purissimi e di bello aspetto”, avrebbero potuto guardare le signore affacciate alle finestre, avrebbero potuto godere di altre signore pagandole, avrebbero trovato mariti compiacenti solo se avessero potuto comprare la loro compiacenza, altrimenti avrebbero incontrato il loro coltello in gola o affondato nelle loro viscere e sarebbero stati rotolati giù per qualche canale o posti in qualche calle dietro a qualcuno dei numerosi pozzi che ornano la città.
Uno sguardo di troppo ad una donna perbene, ad una donna sposata, qualche parola maldestra, per non parlare poi di qualche tentativo di contatto, vietato sempre e comunque (tranne forse in alcuni balli), che avrebbero fatto saltare la mosca al naso a qualche marito geloso e ne avrebbero scatenato il senso di proprietà della donna e la gelosia entrambi sconosciuti agli uomini scandinavi.
Ma i sedici ospiti degli isolani norvegesi, da buoni veneziani qual’erano, non godettero solo delle splendide grazie delle walkirie nordiche, non si bearono soltanto della loro calorosa ospitalità, scrutavano ogni cosa, soprattutto quelle in cui ci si potevano ricavare un po’ di schei, o meglio qualche ducato o qualche zecchino (che erano le monete in vigore allora), ed è così che al Querini, alzato l’occhio da quella interminabile notte brava e guardato qualcos’altro che non fossero le grazie muliebri, nel suo resoconto non sfugge che:

«  …vivevano in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in alto, che coprono con pelli di pesce; loro unica risorsa è il pesce che portano a vendere a Bergen. (...) Prendono fra l'anno innumerabili quantità di pesci, e solamente di due specie: l'una, ch'è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l'altra sono passare, ma di mirabile grandezza, dico di peso di libre dugento a grosso l'una. I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d'Alemagna. Le passare, per esser grandissime, partite in pezzi le salano, e così sono buone (...)».


Il mio cartoccetto di pesce fritto di laguna e un'ombra di soave in Calle San Barnaba

Il mio cartoccetto di pesce fritto di laguna, le patate fritte e un'ombra di soave in Calle San Barnaba

I merluzzi, che qui venivano pescati più grandi e più abbondanti che altrove, venivano lavorati immediatamente dopo la cattura, decapitati, eviscerati, puliti e appesi ad essiccare interi o aperti lungo la spina dorsale le cui due metà rimanevano unite dalla coda, a delle rastrelliere, evitando accuratamente che il vento facesse si che i singoli pezzi si toccassero fra di loro.
L’aria e il clima freddo, secco e senza pioggia dei mesi fra febbraio e maggio, proteggeva il pesce dagli insetti e dalla contaminazione batterica; il quale maturava ancora per altri due tre mesi in un luogo chiuso, purché fosse secco e ben ventilato, in modo tale che alla fine di tutto il procedimento il merluzzo iniziale aveva perso circa il 70% del suo contenuto originario d’acqua, ma conservasse intatti i suoi principi nutritivi: proteine, vitamine e sali minerali.
In breve, l’osservatore  veneziano aveva notato la ricchezza delle isole Lofoten, quello stock fish esposto all’aria ad essiccare, ridotto ad una lastra disidratata, mummificato, che manteneva la polpa del pesce disidratata e la conservava per lungo tempo meglio di una mummia egizia e meglio di Marina Ripa di Meana, senza che il pesce stesso perdesse di sapore o le sue capacità nutritive.
Oltre alla lunga conservazione, che i tradizionali metodi di conservazione del cibo non equiparavano e che permettevano viaggi più lunghi ai marinai, quei fogli di pesce si potevano trasportare facilmente data la loro forma e il loro esiguo peso ed erano delle autentiche banconote nei mercati, perché potevano essere usate come moneta di scambio, tanto erano richiesti e pregiati, ed erano anche molto maneggevoli, in ogni caso non più ingombranti delle vecchie banconote da diecimila lire ancora visibili nei film di Totò.
Il 15 maggio 1432 Pietro Querini e alcuni dei suoi compagni di disavventura (gli altri scelsero di rimanere in quelle isole) partirono dall’isola di Røst alla volta di Bergen, portando con sé 60 stoccafissi secchi gran parte dei quali furono venduti per finanziare il viaggio di ritorno; i veneziani passarono per le città di Trondheim e di Valdstena, prima di giungere a Londra, dove trovarono ospitalità presso la nutrita e potente comunità veneziana d’Inghilterra.
Solo il 12 ottobre del 1432, dopo 24 giorni di cavallo, i marinai reduci giunsero a Venezia dove narrarono le loro disavventure e mostrarono a tutti gli stoccafissi rimasti; la serenissima non tardò ad accorgersi di quanto potesse essere prezioso un alimento di lunga conservazione, di scarso peso, facilmente trasportabile e stivabile, ricco di elementi nutritivi e che, opportunamente cucinato, poteva essere molto gustoso.  
  
(Continua)




3 commenti:

  1. Prima di lasciare un commento ho atteso che questo tuo racconto proseguisse, pensando che il secondo intervento lo avrebbe concluso, invece sono contento non sia finito perché mi piace e mi sorprende questo raccontare il presente di Venezia, e non solo, attraverso la sua storia, intrecciando aneddoti, letteratura e associazioni di idee. Sono stato un paio di volte a Venezia, molto tempo fa, ho avuto modo di osservare quanto dici della sua anima bottegaia e predona da nobildonna decaduta solo che ho avuto l'impressione che Venezia abbia sempre avuto l'intima consapevolezza di essere una nobildonna decaduta, per questo si è ammantata di grazia e sontuosità senza pari, per nascondere agli altri e a sé stessa la propria caducità. Attendo il seguito, sperando nel successivo. Un abbraccio.

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  2. @ Antonio,
    sono contento che almeno a te piaccia questo post. Venezia mi ha affascinato fin da subito, prendevo spesso il treno da Padova e mi perdevo, da solo o in compagnia, fra le sue calli fino a non sapere più dove fossi e, talvolta, lo faccio ancora. Ci sono legato da ricordi affettivi molto forti una delle donne più significative dei miei vent’anni abitava a Venezia, pur non essendo veneziana, quella città l’abbiamo esplorata, scoperta e conosciuta insieme e con lei abbiamo fatto molte altre esperienze.
    Vi respiro l’aria dei miei vent’anni, del carnevale, dell’amore, dell’incanto e del mare che da quando vivo in Veneto mi è mancato moltissimo e Venezia era il mare più vicino. Che i veneziani siano un po’ bottegai, un po’ commercianti e un po’ predoni è caratteristica che condividono con molte altre città italiane del centro-nord, pensa a Genova, a Firenze, a Milano, a Bologna, a Roma stessa … migliaia di commercianti facevano girare varie merci che rivendevano altrove ricavandoci moltissimo e, all’occorrenza, diventavano pure banchieri, usurai e mecenati.
    Le grandi famiglie italiane che hanno fatto il rinascimento provenivano non soltanto dalle famiglie nobili della penisola, ma fondamentalmente dalla borghesia che in Italia più che altrove è sorta in anticipo, visto lo sfilacciamento di un potere centrale di impronta nobiliare. Naturalmente, ogni città ha trovato una sua via specifica per organizzare il potere al proprio interno e salvaguardare gli interessi della borghesia produttiva e dei commerci e quelli dei maggiorenti cittadini; ma, mentre altrove il potere era molto instabile a Venezia l’oligarchia che lo deteneva era invece molto stabile, garantiva un ricambio all’interno di una ristretta cerchia di famiglie e guadagni per tutti
    Io credo, invece, che la posa da nobildonna decaduta non sia sempre stata l’impronta di Venezia, tutt’altro, è la città piuttosto che è decaduta molto dopo tante altre, sicuramente dopo Genova, dopo Firenze, dopo Roma, dopo Milano … solo nel ‘700 la nobiltà lagunare tira i remi in barca e comincia ad investire nell’entroterra, ad acquistare terre e latifondi, si fa proprietaria terriera e inizia a costruire ville stupende sulla riviera del Brenta (fra Padova e Venezia) e sul Terraglio (fra Treviso e Venezia), fino alle splendide ville palladiane di Vicenza.
    La grazia di Venezia, che anche tu hai notato, le deriva da secoli di contatti con la cultura orientale, con la quale commerciava, da cui ha appreso un’eleganza dei modi e una imperturbabilità di fronte agli eventi, straordinaria e invidiabile in Europa, tanto da meritarsi l’appellativo di “serenissima”; questo stile di vita si riverbera interamente nella concezione architettonica della città, nel modo concreto di godersi i piaceri e, purtroppo, si sta perdendo per far spazio al nuovo pragmatismo nord europeo e nord americano.
    Il vecchio commerciante veneziano, che lucrava moltissimo sui suoi commerci, ma aveva merce di primissima qualità, il meglio che si potesse trovare sui mercati fra oriente ed occidente, che era uomo di garbo e aveva un senso dell’onore e dell’ospitalità invidiabili, ha fatto spazio quasi solo ed esclusivamente al predone; il saper vivere con leggerezza degli antichi veneziani ha lasciato spazio a molta ineducazione e inciviltà al fastidio quasi per il turismo, e al concetto di turista come limone da spremere.
    La serenissima concezione dell’eternità ha lasciato spazio ad un eterno presente senza alcun orizzonte magnifico in prospettiva, la salvaguardia della città ha lascito spazio all’organizzazione di concerti come quello dei Pink Floyd, ciò che non era riuscito ad Attila riuscì a Gianni De Michelis, l’attenzione per il flusso delle acque, importantissimo per una città che vive sull’acqua, con strade d’acqua e per cui l’antica saggezza aveva preposto un “magistrato alle acque”, ha lasciato posto al Mose, l’accortezza per l’eleganza e la buona architettura, il senso del bello, Palladio, Tiziano, Giorgione, Tiepolo, Giovanni Bellini, Mantegna … cedono il passo a Calatrava.
    Un abbraccio a te.

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  3. Ah, ho dimenticato, fra le barbarie, di citare l'orda leghista, che dai monti del bergamasco, dalle valli del bresciano, dai cantoni di Cantù, ..., cala/calava ogni anno a Venezia con un'ampolla di acqua delle sorgenti del fiume Po/Eridano per riversarla sulla laguna, con relativa festa celtica inclusa, che somiglia piuttosto alle cene del villaggio di Asterix e Obelix, che alle storiche festività celtiche :-). Ora, con la svolta intellettuale data dall'elezione a segretario del partito di Matteo Salvini, queste feste folckloristiche sono passate in secondo piano per fare spazio ad eventi culturali più corposi: la festa dello gnocco fritto, la sagra del culatello, il galà dell'asparago di Olmi e Martellago, la bisboccia di canzoni anti-napoletane, la bicchierata di vini del Piave ;-)

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