domenica 4 dicembre 2011

RE BUFÈ








Questa canzone è antichissima, nasce in Sicilia (e va a sapere dove di preciso, ne esistono diverse versioni con varianti dialettali locali) ai tempi della dominazione francese, quando Carlo I d’Angiò divenne Re di Sicilia, Re di Napoli, principe di Taranto, re d’Albania, principe d’Acaia e Re titolare di Gerusalemme, re Bufé, viscottu e miné dopo la sconfitta a Benevento di Manfredi di Svevia.
A tradire il riferimento satirico francese (gli angioini non furono molto amati dai loro sudditi siciliani, dalla “sconfitta di Benevento” fino alla cacciata di Carlo I d’Angiò e dei francesi dominatori con i “vespri siciliani” passarono solo pochi anni) è quel nome del re in questione, quel Bufè, che deriva dal francese buffet e che è rimasto nel siciliano arcaico come buffetta che significa il tavolo da cucina, il desco, la mensa familiare.
Ci sono i re di spade, quelli di denari, quelli di coppe, quelli di bastoni e i re da tavola, che sarebbe come dire i re da operetta, e con questo tipo di re che noi abbiamo a che fare in questa canzone, un re che viene presentato come inaffidabile, uno che da la sua parola e poi la ritira perché non gli conviene onorarla, un re che manca proprio dell’onore che è depositato nelle sue parole e che diventano legge perché è un re appunto a pronunciarle e non un “carusu, vavusu, fitusu, viscottu e minusu” qualunque. 






 

Trascrivo il testo come lo ricordo io, è leggermente diverso da quello che mette in musica Alfio Antico nel filmato che vi propongo:

C'era 'na vota 'n re, Bufè, viscottu e minè
'stu re avia 'na figghia, bafigghia, viscottu e minigghia.
Sta figghia, bafigghia, viscottu e minigghia,
avia 'n aceddu, bafeddu, viscottu e mineddu
Gn'iornu st'aceddu, bafeddu, viscottu e mineddu abbulau.
Allura lu re, bufè, viscottu e minè fici nu bandu e dissi:
"A cu' trova l'aceddu, bafeddu, viscottu e mineddu
ci rugnu a me figghia, bafigghia viscottu e minigghia".
Iù u truvai l'aceddu, bafeddu, viscottu e mineddu”,
ci rissi 'n carusu, vavusu, fitusu, viscottu e minusu.
Allura , lu re, bufè, viscottu e minè ci dissi:
"A tia carusu e iu pi 'naceddu bafeddu, viscottu e mineddu,
ti rava a me figghia bafigghia, viscottu e minigghia?
Ah! Vattinni, vavusu, fitusu, viscottu e minusu!".






 

È sostanzialmente intraducibile, perché molti dei termini usati sono onomatopeici, puri suoni che nel proseguire dello scioglilingua sempre più veloce si intrecciano alla musica e incantano ipnoticamente.






 

Inizia con: “C’era una volta un Re, Bufé ...” e se “viscottu” significa biscotto (che però non c’entra un cavolo col re e con la canzone), “miné” non mi risulta significhi qualcosa; questo re aveva una figlia (e anche qui “bafigghia” e “minigghia” non hanno alcun significato), la quale aveva un uccello (“aceddu”, dove “bafeddu” e “mineddu”, ormai l’avrete capito, non significano nulla).
Insomma, se il re è Bufé, la figghia sarà sarà bafigghia e l’aceddu sarà “bafeddu”; se il re è “miné”, la figghia sarà “minigghia” e l’aceddu, ovviamente, “mineddu ... ça va sans dire; il “carusu”, invece, non appartenendo alla casa regnante, non sarà “bacarusu” ma, purtroppo per lui e per distinguerlo, “vavusu”, “fitusu e pure “muvvusu”, ritorna però per lui nel finale  la radice min- unita però al suffisso -usu.






 

Chissà perché, però, “viscottu” è universale, ecumenico, cosmico, multilaterale; può darsi che l’ignoto menestrello si sia ispirato per la sua ballata all’arte di confezionare un ottimo tiramisù, dove in ogni strato occorre mettere una fila di biscotti. 






 

Un giorno questo uccello volò via (“abbulau”), allora il re fece un bando che diceva: “Chi cattura l’uccello di mia figlia, l’avrà in sposa; allora un ragazzo (“carusu”, ma nella canzone si tratta invece di un uomo vecchio e calvo), bavoso (“vavusu”), lercio, sporco (“fitusu”), .... , grida: “Io l’ho trovato...”.






 

Al che il re, guardatolo con attenzione, lo caccia via (“Vattinni”) e gli replica: “Ma davvero credevi che io per un uccello ... avrei dato in sposa mia figlia ... a un ragazzo lercio, bavoso, .... ???







martedì 25 ottobre 2011

IO SONO LA TIGRE



El tiempo es la sustancia de que estoy hecho

el tiempo es un rio que me arrebata, però yo soy el rio;

es un tigre que me destroza, pero yo soy el tigre;

es un fuego que me consume, pero yo soy el fuego.

El mundo, desgraciadamente, es real;

yo, desgraciadamente, soy Borges.

Il tempo è la sostanza di cui sono fatto

il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume;

è una tigre che mi divora, ma io sono la tigre;

è un fuoco che mi consuma, ma io sono il fuoco.

Il mondo, disgraziatamente, è reale;

io, disgraziatamente, sono Borges.

(Jorge Luis Borges, Otras inquisiciones, Nueva refutación del tiempo, 1952).



Io sono il fiume del tempo, io sono la tigre, io sono il fuoco, io sono Io ... disgraziatamente dice Borges ... fortunatamente o fortunosamente, dico io ( e forse disgrazia e fortuna sono la stessa cosa ... l’una il rovescio dell’altra ... ma della fortuna parlerò un’altra volta); tutto ciò che mi agita, mi percuote, mi scuote, mi attraversa ... sono Io, Io solo l’Altro fatto Mio ... perché niente potrebbe sfiorarmi se io non gli dessi un senso per me, se non trovassi spazio per albergarlo, se non facessi mio ciò che mi è esterno.
E’ necessario che io trovi spazio dentro di me esattamente per quella cosa li, altrimenti non la incontrerò mai, altrimenti essa non farà mai parte della mia vita, mi scivolerà a fianco senza che io nemmeno mi accorga che esiste; quante cose semplicemente esistono ma non sono nulla per me, quante cose mi sfiorano senza mai fermarsi, senza riposare in me.
Quante persone incrocio quotidianamente senza che mai queste rappresentino nulla per me o poco più, e quante persone che sono nulla al momento attuale possono diventare molto ... moltissimo ... per me in base alla semplice esperienza di farle mie, di annetterle nella mia intimità, di trascriverle nella mia interiorità, di farle sedimentare in me, di attuare la “permanenza” (la trascrizione dell’altro al proprio interno: la sua presenza, i suoi gesti, le sue azioni, i suoi pensieri, i suoi sentimenti vanno ad alimentare la nostra presenza, i nostri gesti, le nostre azioni, i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Sembra automatico e scontato che avvenga questo discorso, in realtà ci sono molte persone totalmente incapaci di permanenza, come se mancasse loro la penna per scrivere o la carta su cui scrivere). E la “permeanza” (il lasciarsi attraversare piacevolmente da questo sentimento, godendolo, e l’abbandonarsi a donare il proprio sentimento corrispettivo, godendo anche di questo, della “potenza” dell’offrire amore).
Quando amiamo una persona emergono due indici caratteristici di questo amore, il primo è senza dubbio la curiosità, tutto di questa persona ciò che fa, ciò che pensa, ciò che dice, persino i sospiri più reconditi, ci attraggono, sono per noi molto importanti. Il secondo indice è la trascrizione che facciamo dentro di noi degli elementi significativi di questa persona, la “permanenza” in noi della sua essenza per poterne godere anche quando non c’è. Ne trascriviamo i gesti,  ne trascriviamo la voce, i pensieri, tutto ciò che ci colpisce ma soprattutto trascriviamo una storia congiunta di senso, la nostra storia insieme, stabiliamo un linguaggio comune, solo nostro, e diamo un senso a ciascuno di noi e a noi due insieme.
E’ un processo continuo, instancabile, un dialogo incessante che si perpetua anche nei nostri sogni, altrove l’ho chiamato guardare il mondo e se stesso con gli occhi dell’altro, essere presente a se stesso nella relazione, esserci con l’altro.
Finché mi chiedo cosa starà facendo, cosa starà pensando, chissà dove sarà, c’è amore, quando l’amore finisce, cessa gradatamente ogni curiosità e ogni trascrizione dell’altro, il cesello che la scolpiva in me smette di incidere sulle mie carni, non c’è più curiosità e se prima c’erano sempre tante cose da dirsi, adesso non ci sono più parole.
Può accadere ancora qualche lieve curiosità, come un fuoco d’artificio che esplode in ritardo rispetto agli altri perché ha la polvere un po’ più umida o perché aveva la miccia più lunga, ma è come la scia luminosa di una stella che osserviamo sulla volta del cielo quando ormai la stella non esiste più da migliaia di anni, l’altro ritorna fondamentalmente nell’irrilevanza in cui era prima che io lo conoscessi e prima che me ne innamorassi, traiettoria ormai differente che non mi riguarda più.
Ma l'accendersi e lo spegnersi di un innamoramento sono fenomeni molto complessi ma che, tutto sommato, ricadono (o possono ricadere) all'interno di azioni consapevoli e volontarie tranne forse per ciò che riguarda il nucleo del sentimento stesso che sorge spontaneamente; trascrivere o non trascrivere più una storia e un senso comune seguono la stessa sorte dell'innamoramento.



Come la Eva gnostica, anche noi possiamo dire a buon diritto che:

« Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei io sono, e in tutte le cose sono dispersa. E dovunque tu vuoi, tu mi raccogli; ma raccogliendomi, tu raccogli te stesso” (Frammento gnostico dal Vangelo di Eva, in Epifanio di Salamina, Panarion Haeresion, 26 –3).

Parole straordinarie, saggezza antica e dimenticata che racchiude il segreto bocciolo di un incessante processo di essere e divenire, di assimilazione e accomodamento, di sistole e diastole, di espansione diadica della coscienza (Ed Tronick, Regolazione emotiva. Nello sviluppo e nel processo terapeutico, Raffaello Cortina, Milano, 2008) dove il tu e l’io si fondono nel noi ed io posso capire te, posso capire me e posso capire ciò che ci lega. 
Oggi questa saggezza si sostanzia in certi tipi di psicoterapia, la dove i confini dell’Io e del Tu sono molto labili, la dove il terapeuta entra nel nucleo del delirio, attraversandolo, comincia a tessere il delirio insieme al suo paziente, perché questo non rimanga sterile e rigido involucro di cemento armato che ghiaccia l’individuo in un mondo solitario e sublunare, ma crea un germe di mondo condiviso, un mondo più confortevolmente abitabile per l’essere umano, un mondo che non sia più immensa e sterile solitudine da cui scaturiscono terrori senza fine.
Un delirio non è un discorso senza senso, un discorso strampalato, se così fosse nessuno di noi ne sarebbe esente, quanti discorsi strampalati e senza senso facciamo e ci facciamo ogni giorno; un delirio è un discorso talmente rigido e inscalfibile che puoi abitarlo soltanto in solitudine, non c’è spazio per l’altro, ma non c’è spazio nemmeno per te, perché annullando l’altro annulli pure te stesso (e infatti il terrore epidermico dello schizofrenico è quello della frammentazione dell’identità, quello di disperdersi; ma non è solo lo schizofrenico che teme la dissoluzione, le problematiche fobiche, in particolar modo quelle claustro e agora – fobiche, si dibattono fra la dissoluzione identitaria e la trappola senza alcuna via d’uscita ... incapaci di entrare e di uscire in un e da un luogo, incapaci di entrare e di uscire in una e da una relazione).
Non si tratta soltanto di porre l’altro in senso metafisico, di porre un altro totalmente e completamente creato da me, come fecero filosofi idealisti all’inizio del XIX° secolo, il cui pensiero dell’altro può essere espresso con le parole di uno di loro:

"L'io crea il non-io, nell'io, per essere io" (Johann G. Fichte).

Il non-io, l’altro, è una mia creazione; attraverso questa creazione io sono io; l’argomentazione di questo discorso che ne fa Fichte credo sia nota a tutti e in ogni caso la si può trovare in un buon manuale di storia della filosofia. Resta il fatto che l’altro è ciò che io creo per esistere.
Questa posizione tronca di netto ogni insormontabile problema insito ad ogni discorso realistico ingenuo, quel discorso che pone un isomorfismo puntuale fra la nostra percezione e la realtà e che è convinto che noi possiamo conoscere direttamente, senza intermediario alcuno, i mattoni stessi che costituiscono il reale.
Sono troppi e troppo ben argomentati i discorsi che mettono in dubbio questo isomorfismo, non è ulteriormente sostenibile una conoscenza del non-io, dell’altro e della realtà in quanto tale; ma eliminando una conoscenza del reale elimino anche (discorso poco praticato questo) anche la conoscenza di me, che posso cogliermi non direttamente, ma solo attraverso l’altro, così come il mio occhio non può vedermi direttamente ma soltanto attraverso uno specchio.
E’, dunque, intuitivo: se elimino ogni possibile conoscenza dell’altro, di fatto elimino ogni possibile conoscenza di me; come uscirne? Io comunque qualcosa conosco, conosco qualcosa di me, conosco qualcosa dell’altro, e su questa conoscenza baso il mio agire; dove colgo questa conoscenza?
Conoscere è solo e sempre avere consapevolezza del rapporto fra me e l’altro, non conoscerò lui direttamente, non conoscerò me direttamente, ma posso riflettere su ciò che ci lega, è conoscenza del legame che ci unisce.
Per molto tempo si è pensato che il mondo potesse essere conosciuto così com’è, e se talora c’erano delle imperfezioni, queste erano dovute ad errori che venivano commessi nell’osservazione; generazioni di scienziati sono stati addestrati ad osservare asetticamente la natura, a pulire accuratamente le “lenti” attraverso cui la osservavano, ad eliminare ogni fonte di errore, scienziati come Freud quando studiava l’anatomia microscopica nel laboratorio di Brücke a Vienna erano soliti pulire accuratamente le lenti dei loro microscopi, di trattenere il fiato e rallentare al massimo le loro pulsazioni cardiache perché il loro vivere non interferisse con la loro osservazione.
Oggi siamo convinti che l’osservatore non solo è parte integrante con ciò che osserva, ma nel suo osservare modifica ciò che sta osservando; questo significa che dal fisico al cultore delle neuroscienze, dal chimico allo psicoanalista, dall’astronomo allo psicologo sociale, diamo tutti quanti conto non di come sono le cose che osserviamo, ma sostanzialmente del rapporto che c’è fra noi e le cose che osserviamo.
Questo rapporto è co-creazione di due o più individui, in gran parte il mondo in cui viviamo è una costruzione sociale (non mi stancherei mai di suggerire come lettura e di rileggere uno dei migliori libri che abbia mai avuto fra le mani: P. L. Berger T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1987), costruiamo mondi, dimensioni, realtà che poi abitiamo e che possono essere più o meno confortevoli al nostro abitarli. Questi edifici sono  in gran parte costituiti da legami, da ciò che faccio io per te e tu per me, da ciò che faccio io con te, io con voi; la democrazia, la libertà, la giustizia sono idee di mondi abitabili, se non costruissimo tribunali, carceri, università dove si insegna il diritto, parlamenti, se non istituissimo libere elezioni, se non facessimo infiniti dibattiti politici, se non garantissimo i diritti di un cittadino anche con le forze dell’ordine, se non facessimo delle cose insieme, tutti questi sarebbero soltanto discorsi vuoti.



La psicoanalisi stessa è soltanto una striscia sul manto della tigre. Alla fine può darsi che incontri la Tigre – La Cosa Stessa – O” (Wilfred R. Bion, Memoria del futuro. Il sogno, Raffaello Cortina, 1993).

giovedì 20 ottobre 2011

ANDROMACA



Siracusa Teatro Greco, XLVII ciclo di rappresentazioni classiche, Andromaca di Euripide.

"Sono le donne difficili quelle che hanno più amore da dare, ma non lo danno a chiunque. Quelle che parlano quando hanno qualcosa da dire. Quelle che hanno imparato a proteggersi e a proteggere. Quelle che non si accontentano più. Sono le donne difficili, quelle che sanno distinguere i sorrisi della gente, quelli buoni da quelli no. Quelle che ti studiano prima di aprirti il cuore. Quelle che non si stancano mai di cercare qualcuno che valga la pena. Quelle che vale la pena. Sono le donne difficili, quelle che sanno sentire il dolore degli altri. Quelle con l'anima vicina alla pelle. Quelle che vedono con mille occhi nascosti. Quelle che sognano a colori. Sono le donne difficili che sanno riconoscersi tra loro. Sono quelle che, quando la vita non ha alcun sapore, danno sapore alla vita".
Alma Gjini